“Gimmie indie rock” e mi farai felice.
[ 02.04.2020 | Lady Sometimes | noise pop, alt rock ]
Quella dell’indie rock – l’indie rock quello vero, quello che negli anni ’90 ruggiva e faceva sognare milioni di ragazzini altrimenti destinati ad una sempiterna e frustrante solitudine interiore – è una missione, una sorta di opera di evangelizzazione che nonostante tutto riesce ancora oggi a resistere agli assalti del tempo, non perdendo nulla della propria istintiva e innocente bellezza.
Lo sa bene Ettore Pistolesi, già membro di gruppi come The Flying Vaginas e Poptones e che ora, messosi in proprio, debutta col suo primo lavoro da solista. Con simili premesse, il luogo del delitto non poteva che essere il VDSS Studio di Filippo Strang, con la benedizione dell’immancabile e preziosissima Lady Sometimes Records di Esmeralda Vascellari, due realtà che negli anni hanno contribuito enormemente alla fioritura di una scena indie/shoegaze/noise tutta italiana di cui sarebbe proprio il caso di andar fieri.
Come accennato sopra, le coordinate sonore sono molto chiare: l’indie rock di matrice 90s, con le chitarre ovviamente a farla da padrone.
P. è un inizio semiacustico che, per cantato e atmosfere, fa venire alla mente gli Sparklehorse più intimisti e racchiusi: una malinconica dolcezza che fa subito sussultare il cuore.
Le chitarre, si diceva. Vere e immancabili protagoniste dell’album, come nel caso di Song One, in cui da metà brano in poi si prendono la scena in una deriva sonora che Doug Martsch certamente benedirebbe. Grandmother, con quell’attacco shoegaze tra distorsioni e basso pulsante, è un gioiellino a metà strada tra noise pop e alt rock, mentre il solo irrequieto e nevrotico di Adele mostra fiero il santino di Ira Kaplan che ogni adoratore dell’indie rock ha sempre con sé.
La nostalgia per gli anni ’90 evidentemente non investe solo la musica. Prova ne è Rui Costa, il cui titolo farà sobbalzare i calciofili più romantici. Il brano è armonico ed elegante proprio come una giocata dell’ex fantasista portoghese, con un ritornello tra i più orecchiabili dell’album. Una punizione dal limite che finisce dritta nel sette.
La chiusura è già tutto un programma fin dal titolo: Yo La Song è un omaggio fin troppo chiaro e al quale non si può restare indifferenti, e anche a livello sonoro riporta un po’ alla mente i pezzi lunghi e dilatati (I Heard You Looking, per fare un esempio) di quella band immensa che sono gli Yo La Tengo. Modo migliore per salutarsi non poteva davvero esserci.
Un album breve (poco più di 30 minuti), le cui otto tracce scorrono via agevolmente e che sono state scritte e suonate con così tanto cuore che ti viene subito voglia di sentirle tutte di nuovo. Amore al primo ascolto. “Gimmie indie rock”, cantavano i Sebadoh. E noi ci uniremo sempre all’appello.
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Last modified: 9 Aprile 2020