Tra noise e post-punk, indie rock e no wave, il secondo lavoro della band di New York prova a sovvertire ogni etichetta.
[ 24.01.2025 | Wharf Cat | post-punk, no wave, industrial, experimental rock ]
No, a New York non ci sono mai stata. Ma è sulla mia lista.
C’è qualcosa di New York che da sempre mi incute un certo timore: è la paura di perdermi, e non ritrovarmi mai più. Forse solo una sensazione più immaginaria che reale, che fatica a dissolversi e scollarsi completamente dall’idea che me ne sono fatta, probabilmente dovuta alla lettura – ancora ben impressa nel mio subconscio – di Bright Lights Big City, il romanzo di Jay McInerney pubblicato in Italia sotto il titolo malamente tradotto di Le Mille Luci di New York.
L’immagine di una Grande Mela caotica e corrotta, nella quale il protagonista si trascina quasi per inerzia fino a confondere il giorno con la notte in un travagliato flusso di eventi. Un luogo troppo grande e dispersivo per una semplice miniatura umana, dove la depressione è un lusso che non ci si può permettere, dove troppe luci e sostanze accecano l’anima e gli occhi si abituano forzatamente al bagliore di un’insostenibile esistenza sintetica.
What Is Success somiglia forse all’interrogativo che il protagonista senza nome della storia si pone, o, per meglio dire, che tu stesso/a ti poni nel corso della lettura, essendo il tutto scritto in seconda persona.
Il successo come una via di fuga da chissà cosa, il successo bramato dagli yuppies vestiti bene, dalle modelle in cerca di fama in Europa, come un’uscita d’emergenza da una stanza che brucia che apre una porta diretta sull’inferno in fiamme.
Sullo scenario della rampante ma brutale New York anni ’80 descritta da McInerney, fra insegne lampeggianti e sterili uffici tutti identici fra loro, ora immagino riecheggiare senza fine l’ossessività contorta degli Open Head.
Un cinico e ingarbugliato disordine.
Fra i panorami idilliaci della Hudson Valley, relativamente al riparo dalle caotiche fascinazioni urbane, alla serenità di un suono rassicurante il quartetto preferisce fare riferimento ad un assordante disagio post-industriale.
Prendendo come casa base la scuola distorta e rumorosa dei Sonic Youth, gli Open Head provano a ridefinire la nozione di post-punk scombinando le carte in tavola e incastonando frammenti nuovi. Si percepisce un occhio attento puntato a indie rock e shoegaze più contemporanei, si sentono qua e là echi di no-wave ultraprocessata in stile Blurt, ci sono ripetute iniezioni sperimentali e c’è un massiccio sottofondo industrial che contribuisce a rendere l’intero mix ancor più corposo, se vogliamo anche meno accessibile (e, no, fidatevi, non è un difetto).
L’astratto quadretto della copertina, già di per sé un’opera d’arte talmente insolita da risultare inquietante, non è certo un caso. What Is Success si apre con una title track che è più una sgangherata dichiarazione d’intenti art punk, con un mantra ora sussurrato, ora urlato, che sembra inghiottito e poi sputato da una macchina tritarifiuti: What is success / What is the point / I don’t see it / I don’t know it.
È solo l’antipasto di quel cinico, ingarbugliato disordine che pare essere alla base della cifra stilistica della band e che ricompare praticamente e puntualmente a stravolgere ogni singola traccia dell’album, allo stesso tempo però costellato di numerosissime ispirazioni diverse.
In Monotones, la perfetta linea di basso di Jon McCarthy ci ricorda degli Interpol meno plastificati e più audaci – salvo poi concludersi in un delizioso delirio gaze. Echi della band di Paul Banks – oltre a tonnellate di noise in stile gioventù sonica – anche nella successiva N.Y. FRILLS, forse uno dei pezzi migliori dell’intero lotto.
Molto più di una semplice guitar band.
Take It From Me cambia quasi totalmente registro e trasforma le atmosfere: si passa dall’indie ad un prototipo di Deftones riproposti in chiave più dinamica e sperimentale, con un cantato che a malapena riesce a sfondare il muro di suono innalzato dalle due insormontabili chitarre.
Il lato più violento e brutale del quartetto sembra anche essere quello più paradossalmente godibile e riuscito. Abbiamo ad esempio House, in vago sentore hip hop, che puzza di benzina e gomme che stridono sull’asfalto, con una batteria talmente assillante da restare marchiata a fuoco nella mente.
Anche il finale, affidato a Catacomb, non è da meno: un pezzo di cui i Gilla Band di The Talkies sarebbero parecchio entusiasti.
Pur non inventando nulla di particolarmente innovativo, con questo secondo lavoro gli Open Head riescono a spingere un po’ più in là il confine di guitar band: oltre il semplice riff e lo spoken word c’è di più, c’è molto di più, e c’è anche quanto basta per avvicinare un pubblico proveniente da tutt’altro background.
No, a New York non ci sono mai stata. Ma è ancora sulla mia lista.
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Last modified: 27 Gennaio 2025