Un’analisi lucida del suo ultimo lavoro al netto dell’accaduto appare il congedo più consono e doveroso.
[ 10.01.2016 | RCA / Columbia | art rock ]
L’assenza è un filtro che distorce i contorni di ciò di cui prende il posto… e al cospetto di un vuoto ingombrante come quello lasciato da David Bowie il dilagare di commiati allucinati e prettamente sentimentali è stato fisiologico e inevitabile.
Un’analisi lucida del suo ultimo lavoro al netto dell’accaduto appare il congedo più consono e doveroso, ancor più di fronte all’oggettività del fatto che Blackstar è una gemma che avrebbe brillato in ogni caso, senza alcun bisogno di quei riflettori puntati sulla scomparsa del suo autore, di una luce propria che a conti fatti il corso delle cose ha persino affievolito. D’altronde per poterne godere prima che gli eventi ne stravolgessero i lineamenti a suon di riletture postume ci sono stati due giorni appena.
Personalmente, credo di averli spesi bene: se da un lato i fatti mi impongono di coniugare l’esperienza al passato, dall’altro mi scopro lieta di aver trattenuto per la coda le impressioni di allora, quando il nero della stella mi sembrò semplicemente metafora dell’inquieta eleganza senza tempo di David, resurrezione artistica di un uomo che alla morte ha sempre dato del tu. Lazarus è intrisa di un esoterismo noto e inestricabilmente connesso dell’esistenza di Bowie, che i profetici di turno sembrano aver dimenticato, impegnati a sviscerarne le liriche a caccia di dettagli che la rendano una sorta di testamento. In bocca alla critica il vaticinare tardivo fa sempre una gran figura, e un opera ultima che si collochi a chiusura del cerchio è l’unico lieto fine in cui sperare. Peccato però che si riveli una forzatura ingenua e, quel che è peggio, parecchio ingiusta, perchè Blackstar non solo è un ritorno in gran forma, ma ha persino i connotati di un nuovo inizio.
A distanza di tre anni, esaudisce i desideri reconditi che i fedeli del Duca avevano malriposto in The Next Day, e per nulla appare conclusivo di qualsivoglia processo espressivo: al contrario, i quaranta minuti di eclettico Avant Jazz convertono molti dei passati di Bowie in una fertile forma di futuro, incuranti del fatto che il tempo non avrebbe concesso di vederne i frutti.
In una tracklist dalla logica criptica, la title-track inaugura l’ascolto in uno stato di tensione lungo dieci minuti, composto di atti lunatici che alternano il solenne alla melodia, a imbastire un’atmosfera che rispolvera l’atavico nichilismo. In tutta la discografia di Bowie c’è solo un brano che supera la title-track in lunghezza, di pochi secondi, ed è un’altra title track: Station to Station. Il minutaggio inconsueto non è l’unica analogia tra i due album che li contengono. Il sentore di occulto permea entrambi, sebbene declinato in generi diversi, e la condizione psichica in cui all’epoca partorì quell’album fu probabilmente quanto di più vicino alla morte David Jones abbia mai esperito. A volersi sbilanciare, c’è da dire che a conti fatti quello del 1976 fu un disco terapeutico, fisicamente e artisticamente, da cui nacque una nuova incarnazione, quella del Duca Bianco. Mi piace pensare che Blackstar sia stato un tentativo estremo di salvarsi di nuovo, confidando ancora una volta nel potere rigenerante delle proprie sperimentazioni.
Se l’irrequietezza appare quindi in qualche modo affine al fervore oscuro che generò Low e i successivi capitoli berlinesi, d’altro canto il modus operandi somiglia a quello di un Bowie successivo, quello dell’improvvisazione Trip-Hop e delle ambientazioni visionarie di 1.Outside. Alcuni brani ne condividono anche la voluttà nelle narrazioni distopiche, come Sue (Or A Season in Crime), singolo incluso nella compilation Nothing Has Changed del 2014 e riproposto ora stravolto in chiave Drum’n’Bass, e il b-side Tis Pity She Was A Whore, anch’esso radicalmente rielaborato in una mistura di Rock e Jazz dai risvolti deliranti. Il sound dei due pezzi conserva l’energia degli episodi più spasmodici di The Next Day (If You Can See Me), fino a sfiorare territori Dub nel magnetico nonsense del cantato di Girl Loves Me, per approdare poi alle ballad consuete. L’esito è una palette irrazionale e affascinante, tenuta insieme dalla maestria dei musicisti capitanati dal sax di Donny McCaslin.
Non un testamento, ma di certo una cospicua eredità: Blackstar è incollocabile nel panorama musicale odierno, eppure sembra conoscerne ogni mania. Se da un lato si lascia andare a una sorta di revisionismo nostalgico, dall’altro ribadisce l’allergia di Bowie alle ortodossie e alla stasi. E non c’è consolazione che tenga davanti all’evidenza del fatto che solo la scomparsa fisica avrebbe potuto porre fine alla vita artistica di un uomo che non ha dovuto attendere la morte per farsi mito.
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Last modified: 10 Gennaio 2020