La band di Montreal in una delle sue più intense e impegnate opere strumentali.
[ 02.04.2021 | Constellation Records | post rock ]
Cosa si può dire ancora di quella che è, quasi senza possibilità di smentita, la più grande band post rock del pianeta? E soprattutto, cosa possono ancora dare i canadesi alla causa post che non abbiano già dato con i tanti capolavori del passato?
Band mastodontica già nella sua costituzione, i Godspeed You! Black Emperor hanno impresso la loro imponenza da inizio anni Novanta con uno stile unico che non sembra essere scalfito dal tempo, cosa ampiamente dimostrata dagli egregi lavori successivi alla pausa di dieci anni tra 2002 e 2012. Cosa aggiunge, quindi, un lavoro come questo alla scena strumentale che l’exploit dei Mogwai nelle chart uk ha reso più popolare del previsto?
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Nonostante il reiterarsi di un manierismo quasi apocalittico, G_d’s Pee AT STATE’S END! si presenta con tante nuove idee e soprattutto più umorale ed intimo del passato, con l’epicità tipica della loro musica addolcita da suoni in grado di creare atmosfere esistenziali e malinconiche ben precise, rinunciando a quella sorta di elogio della follia e del caos evidente agli esordi.
Le atmosfere oscure e trionfanti non aggrediscono l’ascoltatore, non ne stuprano l’anima ma l’accompagnano in un viaggio epico e misterioso nella rivolta e, incredibilmente, riescono a dare anche un’idea di impegno sociale, politico a favore di un’anarchia non utopica come contraltare al nascosto fascismo imperante, dilagante e sottinteso alle grandi democrazie occidentali.
Stilisticamente, questo nuovo album suona più ordinato del passato finendo per accostarsi soprattutto a Lift Yr. Skinny Fists Like Antennas to Heaven! più che a tutto il resto, con la musica da camera che abbraccia i droni e i campionamenti per costruire un’ipnosi agrodolce. Solo nell’opening, si intravede l’animo più sperimentale dei GY!BE dei primi anni di vita: tutto il resto sarà un tripudio di consapevolezza e maturità artistica.
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La prima suite si divide in quattro parti: nelle prime due possiamo ascoltare una voce in lontananza che anticipa i temi politici del disco e si liquefa sotto la colonna sonora di un incubo prima dell’ingresso di voci confuse e una chitarra tagliente che intona con fare quasi cacofonico una sorta di inno. Questa prima parte potrebbe confondere e suggerire sviluppi diversi dell’opera ma in realtà non fa altro che preparare il terreno mostrandoci subito tutta la crudezza del disco nei suoi aspetti più estremi, prima di tornare su territori meno ostici. Già con la terza parte dell’opening, assisteremo ad un crescendo marziale e magniloquente che delicatamente sfocia nell’ultima parte fatta di colpi di arma da fuoco e impercettibili rimandi alla brutalità della guerra fatta di fragore e silenzio.
Il secondo brano, il più breve del disco con meno di sei minuti, è anche il pezzo più dark dell’opera, con una martellante grancassa a creare un clima inquietante sul quale serpeggia una chitarra spaesata tra suoni elettrici. La terza parte si apre con la voce di un uomo molto debole che racconta di come il governo abbia massacrato i suoi cari, quindi spazio all’elettronica, alla voce di un predicatore, ad un basso potente che anticipa violino, chitarra, batteria e crea una tensione impressionante per quello che si preannuncia il momento più intenso di tutta l’opera. La seconda parte, più energica e quasi allegra, racconta la vitalità della ribellione allo status quo, della gioia del non sottomettersi e anticipa la chiusura, l’ultimo brano, incredibile nel suo essere tristemente gonfia d’amore.
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Come può un disco quasi interamente strumentale avere non solo immensa intensità emotiva ma anche un’incredibile valenza sociale? La risposta è tutta qui e finisce per essere ciò che fa di questo disco l’ennesimo (e forse inatteso) capolavoro della formazione di Montreal.
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Last modified: 22 Maggio 2021