La prima data italiana del quartetto di Manchester è stata un’esperienza sonora e sensoriale a dir poco intensa.
Foto in copertina © Cal Moores
Un atteso debutto.
In nome dell’arcinoto – e pedante – detto secondo il quale la prima volta non si scorderebbe mai, assistere al debutto live in Italia di una qualsivoglia band è un privilegio che mi è capitato di rado nella mia carriera concertistica.
Se poi il gruppo in questione è uno dei più chiacchierati d’oltremanica, la curiosità non poteva che essere elevatissima.
I Maruja si presentano in un Covo strapieno forti di due EP – Knocknarea e Connla’s Well – che hanno sconquassato le classifiche annuali di RateYourMusic e simili, senza dimenticare il recente The Vault, torrenziale raccolta di composizioni che fanno della sperimentazione libera e del minutaggio corposo il proprio marchio di fabbrica (sì, il paragone con l’estetica dei Godspeed You! Black Emperor acquisisce sempre maggiore validità).
In un recente articolo li abbiamo poi inseriti tra i principali alfieri del BMNRcore, un bizzarro genere ispirato alle elucubrazioni di Black Country, New Road e black midi: insomma, ce n’è abbastanza per incuriosirsi sul serio.
La sperimentazione come vera forma di libertà.
Il quartetto di Manchester – capitanato dal tarantolato Harry Wilkinson, che esibisce un fisico scolpito che fa molto frontman hardcore punk – riesce a sprigionare una potenza espressiva davvero invidiabile. Si è al cospetto di un’urgenza sonora talmente palpabile e viscerale che a tratti sembra risultare difficile da gestire e controllare persino per il gruppo stesso.
L’impressione è quella di una band che, in tutta la propria magniloquenza, non vuole porsi limiti di sorta (anche nel vestiario, dal momento che il sassofonista Joe Carroll – magari ispirato dalle recenti foto di un raggiante Gianni Morandi in trasferta in quel di Liverpool – si presenta sul palco con una maglia del Bologna FC).
E, a proposito di riferimenti calcistici, a metà set parte dal pubblico in visibilio un sonoro “Maruja! Maruja!” durante il quale la band deve aver pensato di trovarsi all’Old Trafford (o all’Etihad Stadium, sono all’oscuro delle loro preferenze in tal senso).
È inevitabile che, vista la giovane età e la tanta carne messa al fuoco (si va dal post-rock più oscuro agli intenti sperimentali dei già citati Black Country, New Road, dal post-hardcore più spigoloso a incursioni in territori ferali affini a Death Grips e simili), ogni tanto si rischi di perdere il focus.
Del resto, i Maruja si fanno beffe di qualsivoglia etichetta – e anche di qualunque tipo di forma canzone – e la loro natura di jam band prende spesso il sopravvento, arrivando a creare atmosfere drammaticamente intense in cui non smarrirsi è quasi impossibile.
Dopotutto il loro obiettivo è esattamente quello: confondere e disorientare, cambiando continuamente le carte in tavola.
Quale futuro?
È difficile farsi un’idea circa la direzione che la band possa prendere in futuro: trovare il giusto compromesso tra una forma canzone vagamente standard e il bisogno di sperimentare in maniera totalmente free form potrebbe essere un obiettivo tangibile, ma è presto per fare questo tipo di considerazioni. Per il momento, godiamoci un gruppo dal grande potenziale che, in tutta la sua sacrosanta ambizione, sembra non conoscere limiti.
Quel che è certo è che un live dei Maruja è un’esperienza da vivere appieno e senza freni, sia a livello sonoro che sensoriale: se è vero che da qualche anno a questa parte, soprattutto in ambito post-punk, si sta assistendo ad una pericolosa standardizzazione musicale ed estetica, la band di Manchester è una vera boccata d’ossigeno. Drammatica, sì. Oltremodo potente, ma decisamente vitale e necessaria.
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Last modified: 10 Ottobre 2024