Il fan dei Beatles è una bestia rara. Si è rara, sebbene credo siano centinaia di milioni i fan devoti al quartetto di Liverpool. E’ principalmente bestia rara perché in media è un disadattato. Fin qui niente di particolare: tutti i fan di gruppi vetusti sono ad ora degli instancabili nerds. Ma attenzione: a differenza dei fan di Led Zeppelin, Bob Dylan o di Elvis non lo si puo’ assolutamente ingabbiare in una sola razza.
Anziane signore appesantite con l’innocente caschetto nel cuore, hippie sbiaditi con camicia nei pantaloni che sfoggiano il simbolo della pace in pantofole davanti al telegiornale, instancabili cultori del vinile che assomigliano al venditore di fumetti dei Simpson, bambini ancora incantati dal sottomarino giallo, ragazzini così indie da sembrare indossatori di Soho, insomma un ricco minestrone.
Ma tutto questo è sicuramente ben spiegato in centinaia di libri, che raccontano il devastante impatto che i Fab Four hanno avuto sulla società del XX secolo e io di certo non sono qui per descrivere l’importanza che ha avuto (più o meno inconsciamente) in tutti noi la band più famosa del mondo.
Solo che questa antropologica considerazione non puo’ che balzarmi all’occhio da quando entro nel parcheggio del Forum di Assago per assistere ad un live, un banalissimo concerto, di sir. Paul McCartney. E giusto per farvi capire il mio sgomento, la butto sul gossip. Vedo a distanza di pochi minuti: Rocco Tanica, Mauro Pagani, Noel Gallagher e Massimo Boldi. Ditemi se non è un ricco minestrone questo?
Paul McCartney porta in giro, ormai da tanto (ma forse mai troppo) tempo, una celebrazione spudorata del suo passato. Lo si capisce da subito, quando a 20 minuti dall’inizio del suo show parte un video con vari collage di immagini, icone e disegni che rimandano alla magica Liverpool anni 60. Ovviamente qualche frame è pure dedicato ai Wings e alla sua sfortunata e tanto amata compagna Linda.
Insomma capiamo subito come butta la serata: Beatles in primo piano, ma nel cuore di Paul una buona fetta è dedicata alla sua “band on the run”.
Dopo il video (stupendo per altro e accompagnato da remix molto trendy di suoi pezzi storici) entra Sir. Paul e il Forum è in adorazione. E’ arrivato un gentleman, un nobile direi quasi, elegante e composto, simpatico e piacione. Che si pone davanti alla sua minestra di persone come se fosse davanti alla regina di Inghilterra o davanti ai suoi nipotini. Un gioioso nonnetto tutto sorriso e grinta. Della trasgressione rock ‘n’ roll forse non c’è molto, ma a dire il vero quella in lui non c’è mai stata più di tanto, lo stile e la sua faccia così “pop” rimangono immutate. Questo è il nostro Dorian Gray in carne ed ossa.
Iniziano le danze con “Hello/Goodbye” e giù tutti a cantare. La minestra prende forma e inizia ad amalgamarsi. Metallari figli di “Helter Schelter” indossano per un attimo polo col colletto, ai più anziani ricrescono tutti i capelli. Questo concerto è un momento di comunione spirituale e Paul è il nostro reverendo.
Cio’ che stupisce del signorotto inglese già dai primi brani è la sua bravura tecnica, suona e canta in splendida forma a 69 anni di età. Piano, basso (il suo magnifico ed inseparabile Hofner) e chitarra, in cui si dimostra più rock di quanto sembri (spara pure un paio di assoli arroganti), senza ovviamente mai perdere la sua eleganza. Un inchino a sua maestà.
Nel corso delle due ore e mezza di scaletta Paul cerca di far valere la sua carriera solista che però risulta uno scricciolo nei confonti del mastodontico repertorio che si ritrova alle spalle. Il pubblico infatti pare non gradire eccessivamente “Junior’s Farm” o “Sing The Changes” (inaspettato brano dal suo progetto sperimentale The Fireman) e aspetta impaziente i classici. Triste ma vero: la sua carriera solista ci interessa poco. Vogliamo i Beatles. Ed ecco “All My Loving”, “Drive My Car”, “Long and Winding Road”. La band risponde bene alla rievocazione storica, rimodernizzando anche un po’ i brani, grazie soprattutto alla preziosa presenza del batterista fabbro Abe Laboried Jr., che nonostante l’eccessiva arroganza nel picchiare i tamburi si dimostra scenico e ben adatto allo spirito del live di Macca.
Per rendere ancora più sfacciata la celebrazione Paul cita “Give Peace a Chance” di John Lennon (in una toccante versione chitarra e voce) non prima di aver dedicato la splendida “Something” a George Harrison, forse il momento più intenso del concerto.
Tra un classico e l’altro Paul si atteggia da presentatore TV negli intermezzi, ci tiene ad intrattenerci con le sue smorfiette e il suo buffo ed insistito tentativo di boffonchiare parole in italiano. Sembra fin troppo acqua e sapone, non pare essere uno dei più grandi scrittori di canzoni al mondo.
Il finale di concerto si concentra ovviamente sui megaclassici della produzione Macca.
Le kilometriche “Let It Be” e “Hey Jude” anticipano il momento più tamarro dello show: “Live and Let Die” parte in sordina con Paul al pianoforte a coda e poi fuoco e pirotecnici scatenano l’inferno, in una versione tiratissima da rendere soffice persino la cover violenta di Slash e Axl Rose.
I bis infine sono dedicati ad altre pietre miliari come “Get Back”, “Yesterday” e “Helter Skelter” e per concludere (scelta non proprio banale) il geniale finale di Abbey Road, che chiudeva in pratica la carriera dei Fab Four. E qui chiude il concerto, un concerto come tanti. Semplicemente un memorabile karaoke dal vivo. Con la semplicità di chi arriva al cuore di milioni di persone con una banalissima melodia. E arrivato e ci ha fatto cantare, grandi e piccini, punkers e fichette con occhiali alla moda. Tutti in ginocchio, il vecchio sir. Paul è passato.
Marco Lavagno
Last modified: 14 Dicembre 2011