Parafrasando impunemente gli LCD Soundsystem, tra i protagonisti indiscussi di quest’anno, confesso senza troppi preamboli i miei pensieri a caldo, quando l’edizione 2016 del Primavera Sound Festival si era conclusa da appena poche ore.
Certo, come ogni volta l’atmosfera che si respira alla kermesse catalana è stata elettrizzante, dal sapore di una dose illegale di zuccheri complessi da cui trarre la carica indispensabile a reggerne i ritmi spasmodici. Eppure di quest’anno ricorderò anche il retrogusto amarognolo dell’insoddisfazione che mi ha assalita la domenica mattina in aeroporto, una percezione vaga e fastidiosa che ho elaborato faticosamente, impossibilitata com’ero ad utilizzare facoltà mentali oltre quelle basiche per tutto il resto della giornata di rientro.
Cosa volete che vi dica? Sarà colpa del programma si gonfia di anno in anno, mentre l’età avanza, il fisico vacilla e la testa continua imperterrita con l’ingenua pretesa di riuscire a non perdersi nulla. Non lasciatevi incantare dai cartelloni sempre più colmi: la verità amara è che un festival di queste dimensioni costringe non solo ad armarsi di coraggio e fare delle scelte – che per quanto mi riguarda è un’attività che evito accuratamente in ogni ambito della vita per tutto il resto dell’anno procrastinando qualunque cosa a oltranza – ma anche a farlo in fretta, nel giro di quei dieci minuti scarsi che intercorrono tra un concerto e l’altro.
L’edizione 2016 verrà ricordata anche per l’introduzione della nuova venue Bowers & Wilkins, tempio pagano in puro PVC per gli oltranzisti del dancefloor, distante circa un km dal pannellone solare che sovrasta lo stage Pitchfork: un’area in più che si annette agli oltre 180.000 metri quadrati di cui consta il Forum, un parco giochi a base di dj set e vermouth aperto da mezzogiorno fino alle sei della mattina successiva che ha messo a dura prova anche i più giovani e allenati. D’altra parte, anche senza contare gli eventi in zona dedicata ai techno raver, la proposta complessivamente è stata così ricca, anche nelle location diurne in centro, che mai come quest’anno avrei desiderato avere il dono dell’ubiquità, o quantomeno del teletrasporto, o in ultima istanza un disturbo psichico in grado di convincermi di aver assistito contemporaneamente a tre live diversi.
Ma andiamo con ordine. Eravamo a rimasti alla mattina di domenica.
Sprofondata nell’angusto sedile della compagnia low-cost che mi riportava a casa, riacquistavo pian piano l’attivita cerebrale di un normodotato, e i contorni del disagio si facevano più nitidi: ecco arrivare una punta di rimorso per aver scartato a priori i Drive Like Jehu dopo aver constatato che per loro avrei dovuto sacrificare i Deerhunter sull’altare dello scheduling. Ma non era neanche quello. In fin dei conti il live di Bradford Cox e sodali era stata una delle esperienze migliori, dicevo a me stessa mentre addentavo un tramezzino insipido: tecnicamente impeccabili ed estrosi negli arrangiamenti, a farcire le melodie gentili dei brani del nuovo Fading Frontiers di elementi propulsivi (mi esaltavo ancora al pensiero di quella “Living My Life” caricata di percussioni Afro Beat).
Non mi pentivo neanche di aver snobbato il French Touch e avergli preferito il Texas. Quando gli AIR avevano snocciolato composti (forse troppo) i cavalli di battaglia io li avevo ascoltati dal palco opposto, felice della pole position guadagnata con largo anticipo al cospetto degli Explosions In The Sky. E che live, quello! Avvolgente come solo i grovigli di chitarre Post Rock sanno essere, una danza muta di ombre simbiotiche dalle movenze tribali, stagliata su luci calde a tratteggiarne i contorni, a trafiggermi il cuore con quella freccia che si chiama “Your Hand in Mine”, e che fa sempre inevitabilmente centro.
AIR @ H&M stage, giovedì 2 giugno | prospettiva pseudo-artistica tramite maxischermo dell’Heineken stage in attesa degli Explosions In The Sky
Explosions In The Sky @ Heineken stage, giovedì 2 giugno | foto fatta male e photoshoppata peggio nonostante la vicinanza al palco
La hostess era già nella fase in cui si tenta di rifilare i gratta & vinci ai passeggeri ed io non ero ancora riuscita a sviscerare la questione con la dovuta onestà intellettuale. Mancava appena un quarto d’ora all’atterraggio quando ho trovato il coraggio di ammetterlo a me stessa: ce l’avevo coi Radiohead.
‘Ma cosa vorrai mai ancora dai Radiohead, ‘che ti hanno fatto anche “Creep”? Non ti accontenti mai?’ E allora provateci voi. Provate a resistere all’euforia collettiva dopo l’uscita dell’attesissimo nuovo album, ad affrontare un venerdì infernale (il giorno di maggior affluenza, lo affermo senza dati alla mano avendolo misurato sulla fatica spesa ovunque a ritagliarmi spazi vitali), a rinunciare non solo a Dinosaur Jr. e Tortoise perchè incastonati in quelle due ore del venerdì in cui (quasi) tutti gli occhi erano stati puntati su Thom Yorke, ma anche al concerto che li aveva preceduti, quello dei Beirut, per non perdere la posizione guadagnata in quel Tetris umano che aveva iniziato a comporsi sotto lo stage Heineken ben sei ore prima dell’inizio della performance. E tutto questo per rimanere poi incresciosamente delusi.
Sì, ok, bello tutto. Bello (si fa per dire) Thom, in total black e con le corde vocali decisamente più in forma di quanto ci si potesse aspettare, bella la video art a base di tasselli a scomporre le riprese e raccontarne i dettagli – ma forse un po’ meno bella per chi era rimasto in fondo e aveva sperato almeno nei maxischermi ai lati del palco per poter ricordare qualche immagine della performance. Bello e paradossale il fatto che probabilmente prima di eliminare ogni traccia di se stessi dal web Yorke e soci si erano messi a scrivere la scaletta del tour davanti al proprio canale Youtube ordinando i video per numero di visualizzazioni. Ma al cuor non si comanda coi numeri. La performance aveva lasciato un po’ di spazio al nuovo A Moon Shaped Pool ma per lo più era stata un freddo compendio delle gesta passate, una lista lunga due ore – il doppio del tempo di norma concesso ad ogni live del festival – fatta di brani tanto idolatrati da essere in grado di cavarsela da soli, e che a tutti gli effetti erano stati costretti a farlo non avendo potuto contare su un pathos proporzionale alla propria fama da parte degli esecutori.
Radiohead @ Heineken stage | venerdì 3 giugno
Dopo essermi tolta il sasso più grande dalla scarpa potevo finalmente proseguire a briglia sciolta, passando a un grande classico tra le cose di cui lamentarsi, ossia all’acustica del palco Pitchfork, nota per aver distrutto più di un live nel corso della propria carriera, e passi se capita col timido pianoforte del povero Tobias Jesso Jr. come lo scorso anno, ma se la posizione di ‘sto palco inficia anche performance dai volumi ben più massicci allora ditemelo ‘che l’anno prossimo vengo io ad aiutarvi a girarlo con le spalle al mare. Nel frattempo complimenti a tutti per non averlo fatto già quest’anno ed aver castrato anche Car Seat Headrest.
Anche in altri casi lo stage aveva finito, in un modo o nell’altro, per influire negativamente sulle performance: alcune, pur essendosi rivelate validissime, non erano riuscite a riempire le platee a cui erano state destinate, mastodontiche eppure dai volumi spropozionatamente bassi, come nel caso del palco Heineken che aveva letteralmente inghiottito il sound rarefatto e la delicata scenografia dei Beach House. A Julia Holter avrebbe giovato anche quest’anno l’intimità dell’Auditori Rockdelux, e invece era finita sul Ray-Ban, in tarda notte, una location tanto vasta che persino ai Battles era costato qualche sforzo dominarla.
Altri impasti sonori invece si erano sposati perfettamente col contesto, esplodendo incontenibili, come il Gospel elettrificato degli Algiers, l’eleganza imponente dei Beak> e il Garage indemoniato nell’orgia di batterie dei Thee Oh Sees.
Thee Oh Sees @ Primavera stage | giovedì 2 giugno
E così via, proseguendo nell’alimentare quella inedita vena polemica, mentre recuperavo il mio bagaglio a mano che era finito in stiva contro la mia volontà, tanto per regalarmi un motivo ulteriore per avercela col mondo intero.
È bastato accendere l’autoradio il lunedì seguente e mettere su The Hope Six Demolition Project per riconciliarmi col cosmo e col festival del mio cuore. Ripensare all’esibizione di PJ Harvey è la terapia migliore per spazzare via ogni disappunto.
Un live tra i più seguiti del sabato, costruito col rigore e la coerenza artistica consoni alla caratura del suo ultimo lavoro in studio. Con la solennità del trompe-l’œil alle sue spalle, esplicitazione grafica del minimalismo impattante che da Let England Shake contraddistingue la sua produzione, Polly Jean si è presentata nei panni di una valchiria contemporanea, dapprima schierata coi suoi commilitoni armati di fiati e corde, per poi uscire dalle file sull’intro di “Chain Of Keys” e posizionarsi al centro dello stage a guidare il suo plotone. Quello che si è svolto poi sotto gli occhi dei presenti è stato una sorta di rituale massonico, incentrato sull’ultimo disco ma che ha lasciato spazio anche al suo predecessore. Il cerimoniale è proseguito ininterrotto sino alla fine, architettato in modo da perpetuarsi persino nelle pause tra un brano e l’altro con la leggiadria sincronica delle sagome dei performer ad alternarsi alla strumentazione. Tra loro, un paio di orgogli nostrani, Enrico Gabrielli e Alessandro Stefana, un sodalizio ormai collaudato quello dei due polistrumentisti con PJ Harvey, che coi suoi gorgheggi orgasmici ha strappato applausi ad ogni refrain di “To Bring You My Love”, in un coinvolgimento emotivo paragonabile solo a quello messo in piedi dai Sigur Ros.
Garanzie come Tame Impala e Savages, gradevoli sorprese come U.S. Girls e i connazionali Altre di B: smaltita la sbornia, sparite le paturnie, il bilancio torna ad essere in positivo ed io penso già agli early-birds per il 2017.
Primavera Sound, I loved you and I’ll always do / And I’ve traveled over / Dry earth and floods / Hell and high water / To bring you my love.
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Last modified: 3 Aprile 2019