Ci sono degli appuntamenti ai quali non si dovrebbe mai mancare, uno di questi è stato, senza ogni ombra di dubbio, il concerto di Ryan Adams tenutosi all’Anfiteatro del Vittoriale lo scorso 12 luglio [qui la recensione del suo ultimo Prisoner, uscito a inizio anno per PAX-AM].
Un posto davvero meraviglioso e suggestivo dove poter assistere ad un concerto, non solo per il panorama sul Garda, ma soprattutto per l’acustica, dettaglio non poco trascurabile quando si parla di musica. Quindi si partiva in qualche modo avvantaggiati, ma la vera ragione era la possibilità di farsi trasportare per due ore abbondanti nel tormentato e affascinante mondo di Ryan. Un universo che pulsa di rock sporco e polveroso, che ti impasta il cuore e l’animo con le sue chitarre pulsanti e le ritmiche decise. Un rock sincero che affonda le radici nel profondo country, ma che attraverso le sua mani assume prospettive moderne e attuali.
Assente dall’Italia ormai da innumerevoli anni sul palco Ryan, accompagnato da Ben Alleman alle tastiere, Charlie Stavish al basso, Frederik Bokkenheuser alla batteria Todd Wisenbaker alla chitarra, ha portato una scaletta intensa ed energica. La partenza è stata una vera tripletta ad alto impatto emotivo: “Do You Still Love Me?”, “Gimme Something Good” e “Am I Safe” hanno da subito messo in chiaro che per due ore saremmo stati inondati e attraversati da qualcosa di magico. Sentire il cuore in gola che batte il tempo di una batteria che non lascia quasi mai il passo, tenendo alto il tiro per tutto il live. Abbandonarsi a quel senso di malinconia costante, imprigionata in una compostezza quasi innaturale, e al tempo stesso percepire le pulsazioni di una grande sensibilità. Sono queste le cose che rendono un live, un grande live. Torturarsi sulle note di “Let it Ride”, “Cold Rose”, “When The Summer Ends”, per non poter abbracciare il vicino per sentire se anche lui stesse respirando come te, perché come ha detto anche Ryan sul palco, riprendendo uno spettatore troppo preso dal suo smartphone, we are human. Lo siamo davvero tutti e infatti le tensioni iniziali, che imbrigliavano la band sul palco, si sono sciolte via via e il live ha acquisito quasi un tratto liberatorio. Culminato in una che jam strumentale di quasi venti minuti e in una botta e risposta ricco di misunderstanding col pubblico che ha portato all’invezione di una canzone blues con protagonista un fantomatico Whalter Grey. L’ultima tornata di canzoni ha riportato ad altissimi livelli il carico di emozioni e forza espressa con delle ispiratissime versioni di “Sweet Illusion”, “New York”, ed “Everybody Knows” e un “English Girls Approximately” appena accennata in versione acustica.
Due ore abbondandi che sarebbe inutile provare a tratteggiare in ogni singolo brano e ogni singola emozione perché poche parole non bastano, ma posso dire che anche se il bis che tutti aspettavamo non c’è stato, quella con “Shakedown on 9th Street” è stata una chiusura in grande stile. Tanto che la gente finalmente libera di sprigionare tutta l’energia accumulata nello stare seduta, si è riversata sotto al palco, con la voglia di rompere le regole e il bon-ton che il luogo richiederebbe, e far vincere la gioia e il desiderio di stare lì, a cantare, applaudire e sentire. Speriamo non passi troppo tempo per rivedere Ryan, qui da noi, perché qualcuno che lo aspetta a braccia aperte ci sarà sicuramente.
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Last modified: 22 Febbraio 2019