New York is older
And changing its skin again
It dies every ten years
And then it begins again
Nel retro del Warsaw di Brooklyn il tormentato amante di “Born To Beg” si lascia andare a una riflessione su quella che è città di adozione e scenario ricorrente nella discografia dei National, una manciata di parole che scorrono su una ballad al piano punteggiata di elettronica e che, tutto sommato, a volerle usare per descrivere il tracciato artistico di Matt Berninger e i suoi, sarebbero ugualmente appropriate. Se New York cambia pelle ogni dieci anni, è pur vero che lo fa restando sempre inconfondibilmente se stessa. Un po’ come questi suoi figli adottivi, che da un paio di decenni a questa parte hanno imparato a rinnovarsi, praticando l’arte di sbagliare come forma di ricerca di nuove correttezze, contribuendo a riscrivere di volta in volta le regole del rock indipendente. Lo fanno per lo più inconsapevolmente, perché loro sono sempre loro, e non saprebbero fare altrimenti: le radici saldamente affondate nel Midwest, una malinconia inestinguibile e un unico anestetico efficace, la musica. Perchè dopo sette album in studio è assodato: non c’è guarigione ma solo lenitivi con cui gestire impeti e autolesionismi, che divengono fertilizzanti per la disillusione della mezza età.
Quello del progetto The National è un rigenerarsi fluido e sincero che coinvolge il songwriting così come per il supporto sonoro. Da sempre la loro è una poetica che scorre lungo silhouette di donne, ma sono trascorsi 12 anni da Alligator, e la signora Berninger non ha più bisogno di pseudonimi. La prima persona di Sleep Well Beast è plurale e per metà femmina. Believe me, you just haven’t seen my good side yet, diceva Berninger un tempo a sua moglie, quando la chiamava “Karen”; you’re gonna see me in a different light, gli promette ora in “Carin at the Liquor Store”, perché stavolta Carin Besser è in una posizione inedita, quella accanto a lui nella scrittura dei testi. Col tempo e con la compagnia giusta dipingersi diventa più semplice, e la dimestichezza di Matt nell’anestetizzare il dolore gli consente di fare a meno degli orpelli. Strutture melodiche più dipanate, meno ricche di dettagli e vezzi orchestrali rispetto a un passato prossimo fatto di inquietudini negli arrangiamenti. La bestia dorme tranquilla, tenuta a bada da un’elettronica inedita, e avvolta in tessiture sintetiche la poesia rimane intatta: una scelta compositiva che è anche una dichiarazione di fiducia nei confronti del futuro, nonostante tutto.
Niente auto-prescrizioni, solo evoluzioni naturali e necessarie. Come “Walk It Back”, nata “Roman Candle” nel 2015 durante un live, figlia di basso, batteria e chitarra, poi suonata periodicamente nei due anni successivi fino a cristallizzarsi ora in un ricamo avveniristico di synth, ed é con la stessa filosofia che i Dessner e i Devendorf devono aver hanno scolpito gli arrangiamenti di tutto l’album.
Alcune tracce sono sintesi estrema e perfetta dell’America intera. Il beating a ritmo soul che in sottofondo detta il passo al piano di “Nobody Else Will Be There” è una colonna sonora per frammenti di umanità sparsi in una New York frenetica e ostile, di cui Berninger sa descrivere ogni faccia. Why are we still out here holding our coats?, pochi versi su una ballad bastano ad accendere i neon dei fast food in Metropolitan Avenue, si fanno largo nell’inverno severo oltre l’East River e squarciano il reticolo asettico di Williamsburg nella corsa verso una Manhattan sfavillante e irraggiungibile. Il viaggio di “Empire Line” è metafora di incomunicabilità (Can’t you find a way? You are in this too) e insieme è ode al tradizionale leitmotiv dell’on the road, col drumming che esaspera la tensione in modernissima chiave post punk.
E poi l’America di oggi, l’urgenza di fissare in note e parole un capitolo grottesco e angosciante come la presidenza Trump: I cannot explain it any other way, tutta l’esasperazione gridata nel refrain di “The System Only Dreams in Total Darkness”; this must be the genius we’ve been waiting years for, l’ironia amara dell’avanzare nevrotico di “Turtleneck”. È la stessa urgenza che affligge i Grizzly Bear di Painted Ruins ed é più virulenta di quella che partorì “Mr. November”.
Nei momenti in cui è costretto a sporcarsi le mani con la politica Matt smette i panni del crooner compassato e riversa in studio la stessa energia da rocker ebbro che sfoggia in versione live. D’altro canto non ci sono cali, la cifra emozionale delle sue ballate artificiali è sempre altissima.
L’elogio delle umane contraddizioni raggiunge il punto più alto in “I’ll Still Destroy You”, con la batteria iconica su un synth pop agrodolce, e quel nothing I do makes me feel different che racchiude l’anedonia di un protagonista che potrebbe essere uscito dalla penna di Jonathan Franzen, come l’eloquente artwork in cui una casa ridotta a geometria asettica conserva la propria ragione di esistere in un’unica apertura che prova ad annientare il buio.
Le antitesi costrette a convivere sono ancora una volta la carta vincente dei National.
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Last modified: 3 Aprile 2019